“il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» ” (Gen 4,9)
Lo smarrimento del figlio maggiore è molto difficile da identificare. Dopo tutto, faceva le cose perbene. Era obbediente, ligio al dovere, rispettoso della legge e gran lavoratore. La gente lo rispettava, lo ammirava, lo elogiava e probabilmente lo considerava un figlio modello. All’esterno era irreprensibile. Ma, di fronte alla gioia del padre al ritorno del fratello più giovane, una forza oscura erompe in lui e ribolle in superficie. Improvvisamente emerge una persona risentita, orgogliosa, cattiva ed egoista, una persona rimasta nascosta nel subconscio, anche se si era fatta sempre più forte e operante nel corso degli anni.
Guardando in profondità dentro di me e poi intorno a me la vita degli altri, mi chiedo cosa sia più dannoso, la lussuria o il risentimento? C’è tanto risentimento tra i “giusti” e i “retti”. C’è tanta facilità a giudicare, condannare e esistono tanti pregiudizi tra i “santi”. C’è tanta rabbia repressa tra le persone preoccupate di evitare il “peccato”.
Lo smarrimento del “santo” pieno di risentimento è così difficile da individuare proprio perché è strettamente unito al suo desiderio di essere buono e virtuoso. Io so, dall’esperienza della mia vita, con quanto zelo ho cercato di essere buono, ben accetto, amabile e di buon esempio agli altri. Mi sono sempre sforzato, in modo cosciente, di evitare le insidie del peccato e ho sempre avuto paura di cedere alla tentazione. Ma nonostante questo, sono subentrati una severità e un fervore moralistici – e persino un tocco di fanatismo – che mi hanno reso sempre più difficile sentirmi a casa nella casa di mio Padre. Sono diventato meno libero, meno spontaneo, meno allegro, e gli altri hanno finito per vedermi sempre più come una persona piuttosto “pesante”. Senza gioia.
Quando ascolto attentamente le parole con cui il figlio maggiore attacca il proprio padre – parole ipocrite, di autocommiserazione, di gelosia -, sento in esse un oscuro lamento. E il lamento che viene da un cuore che avverte di non aver mai ricevuto ciò che gli era dovuto. E il lamento espresso in infinite maniere sottili e non, e che forma un sostrato indurito di risentimento umano. E il lamento che grida: «Ho faticato tanto, ho lavorato a lungo, mi sono dato sempre da fare e ancora non ho ricevuto quello che altri ottengono tanto facilmente. Perché la gente non mi ringrazia, non mi invita, non si diverte con me, non mi rende omaggio, mentre presta tanta attenzione a coloro che prendono la vita con disinvoltura e noncuranza?».
È in questo lamento, cui può essere data voce o meno, che riconosco il figlio maggiore in me. Spesso mi ritrovo a dolermi di piccoli rifiuti, piccole scortesie, piccole negligenze. Di frequente scopro che dentro di me non la finisco di mormorare, piagnucolare, brontolare, lagnarmi e affliggermi, anche contro la mia volontà. Più mi soffermo su questi pensieri e peggiore diventa il mio stato. E più analizzo il mio stato, più vi trovo ragioni per lamentarmi. Più lo scandaglio, più si fa complicato. C’è una forza enorme e oscura che mi trascina a questo lamento interiore. La condanna degli altri e l’autocondanna, l’ipocrisia e il rifiuto di quello che si è si rafforzano a vicenda in un circolo sempre più vizioso. Ogni volta mi ci lascio sedurre, ogni volta mi avvita in una spirale senza fine di ripudio di me stesso. Poiché mi lascio attrarre nel vasto labirinto interiore dei miei lamenti, mi ci perdo sempre di più, finché, alla fine, mi sento la persona più incompresa, respinta, trascurata e disprezzata del mondo.
Di una cosa sono sicuro: lamentarsi è qualcosa che si autoperpetua ed è controproducente. Ogni volta che mi abbandono alle mie lagnanze nella speranza di suscitare pietà e ricevere la soddisfazione che tanto desidero, il risultato è sempre l’opposto di ciò che volevo ottenere. E difficile vivere accanto a qualcuno che si lamenta e pochissime persone sanno come rispondere alle querimonie di chi rifiuta se stesso. La tragedia è che spesso le lamentele, una volta espresse, conducono a ciò che più si teme, e cioè a un ulteriore rifiuto
Il tutto questo si è rivelato molto vero quando un mio amico, diventato di recente cristiano, mi ha criticato per non essere molto devoto. La sua critica mi ha fatto uscire dai gangheri. Mi sono detto: «Come osa costui darmi una lezione sulla preghiera! Per anni ha vissuto una vita senza pensieri e senza freni, mentre io, sin dalla fanciullezza, ho scrupolosamente vissuto una vita di fede. Si è convertito ora e mi dice come mi devo comportare!». Questo risentimento interiore mi rivela il mio stesso “smarrimento”. Ero rimasto a casa senza mai allontanarmi, ma non avevo ancora vissuto una vita libera nella casa di mio padre. Rabbia e invidia dimostravano la mia schiavitù.
Ed è questo smarrimento – caratterizzato dalla facilità a giudicare e condannare, dalla rabbia e dal risentimento, dall’amarezza e dalla gelosia – ad essere così dannoso e devastante per il cuore dell’uomo. Spesso pensiamo allo smarrimento in termini di azioni molto palesi, persino spettacolari. Il figlio più giovane ha peccato in un modo che possiamo facilmente identificare. Si è ribellato alla morale e si è lasciato travolgere dalla sua lussuria e avidità. Poi, avendo visto che il suo comportamento ribelle non conduceva se non alla miseria e alla sofferenza, il figlio più giovane è rinsavito, si è voltato indietro e ha chiesto perdono. Abbiamo qui un classico fallimento umano che si è risolto in modo semplice. Piuttosto facile da comprendere e compatire.
Lo smarrimento del figlio maggiore, invece, è molto più difficile da identificare. Dopo tutto, faceva le cose perbene. Era obbediente, ligio al dovere, rispettoso della legge e gran lavoratore. La gente lo rispettava, lo ammirava, lo elogiava e probabilmente lo considerava un figlio modello. All’esterno era irreprensibile. Ma, di fronte alla gioia del padre al ritorno del fratello più giovane, una forza oscura erompe in lui e ribolle in superficie. Improvvisamente emerge una persona risentita, orgogliosa, cattiva ed egoista, una persona rimasta nascosta nel subconscio, anche se si era fatta sempre più forte e operante nel corso degli anni.
Guardando in profondità dentro di me e poi intorno a me la vita degli altri, mi chiedo cosa sia più dannoso, la lussuria o il risentimento? C’è tanto risentimento tra i “giusti” e i “retti”. C’è tanta facilità a giudicare, condannare e esistono tanti pregiudizi tra i “santi”. C’è tanta rabbia repressa tra le persone preoccupate di evitare il “peccato”.
Lo smarrimento del “santo” pieno di risentimento è così difficile da individuare proprio perché è strettamente unito al suo desiderio di essere buono e virtuoso. Io so, dall’esperienza della mia vita, con quanto zelo ho cercato di essere buono, ben accetto, amabile e di buon esempio agli altri. Mi sono sempre sforzato, in modo cosciente, di evitare le insidie del peccato e ho sempre avuto paura di cedere alla tentazione. Ma nonostante questo, sono subentrati una severità e un fervore moralistici – e persino un tocco di fanatismo – che mi hanno reso sempre più difficile sentirmi a casa nella casa di mio Padre. Sono diventato meno libero, meno spontaneo, meno allegro, e gli altri hanno finito per vedermi sempre più come una persona piuttosto “pesante”.
Senza gioia.
Quando ascolto attentamente le parole con cui il figlio maggiore attacca il proprio padre – parole ipocrite, di autocommiserazione, di gelosia -, sento in esse un oscuro lamento. E il lamento che viene da un cuore che avverte di non aver mai ricevuto ciò che gli era dovuto. E il lamento espresso in infinite maniere sottili e non, e che forma un sostrato indurito di risentimento umano. E il lamento che grida: «Ho faticato tanto, ho lavorato a lungo, mi sono dato sempre da fare e ancora non ho ricevuto quello che altri ottengono tanto facilmente. Perché la gente non mi ringrazia, non mi invita, non si diverte con me, non mi rende omaggio, mentre presta tanta attenzione a coloro che prendono la vita con disinvoltura e noncuranza?».
È in questo lamento, cui può essere data voce o meno, che riconosco il figlio maggiore in me. Spesso mi ritrovo a dolermi di piccoli rifiuti, piccole scortesie, piccole negligenze. Di frequente scopro che dentro di me non la finisco di mormorare, piagnucolare, brontolare, lagnarmi e affliggermi, anche contro la mia volontà. Più mi soffermo su questi pensieri e peggiore diventa il mio stato. E più analizzo il mio stato, più vi trovo ragioni per lamentarmi. Più lo scandaglio, più si fa complicato. C’è una forza enorme e oscura che mi trascina a questo lamento interiore. La condanna degli altri e l’autocondanna, l’ipocrisia e il rifiuto di quello che si è si rafforzano a vicenda in un circolo sempre più vizioso. Ogni volta mi ci lascio sedurre, ogni volta mi avvita in una spirale senza fine di ripudio di me stesso. Poiché mi lascio attrarre nel vasto labirinto interiore dei miei lamenti, mi ci perdo sempre di più, finché, alla fine, mi sento la persona più incompresa, respinta, trascurata e disprezzata del mondo.
Di una cosa sono sicuro: lamentarsi è qualcosa che si autoperpetua ed è controproducente. Ogni volta che mi abbandono alle mie lagnanze nella speranza di suscitare pietà e ricevere la soddisfazione che tanto desidero, il risultato è sempre l’opposto di ciò che volevo ottenere. E difficile vivere accanto a qualcuno che si lamenta e pochissime persone sanno come rispondere alle querimonie di chi rifiuta se stesso. La tragedia è che spesso le lamentele, una volta espresse, conducono a ciò che più si teme, e cioè a un ulteriore rifiuto.
Il padre rivuole non solo il figlio minore, ma anche il figlio maggiore. Anche il figlio maggiore ha bisogno di essere ritrovato e ricondotto alla casa della gioia. Risponderà alla richiesta di suo padre o rimarrà ancorato alla sua amarezza? Anche Rembrandt lascia in sospeso la decisione finale del fratello maggiore. Barbara Joan Haeger scrive: «Rembrandt non rivela se egli veda la luce. Siccome non condanna espressamente il fratello maggiore, Rembrandt induce a sperare che anche lui si sentirà prima o poi un peccatore… l’interpretazione della reazione del fratello maggiore viene lasciata a chi osserva il quadro».
Il padre ama ogni figlio e dà ad ognuno la libertà di essere ciò che vuole, ma non può dar loro la libertà che non si sentiranno di assumere o che non comprenderanno adeguatamente. Il padre sembra rendersi conto, al di là dei costumi della società in cui vive, del bisogno dei propri figli di essere se stessi. Ma egli sa anche che hanno bisogno del suo amore e di una “casa”. Come si concluderà la storia dipende da loro. Il fatto che la parabola non abbia un finale garantisce che l’amore del padre non dipende da una conclusione appropriata del racconto. L’amore del padre dipende solo da lui e fa esclusivamente parte del suo carattere. Come dice Shakespeare in uno dei suoi sonetti: «L’amore non è amore se muta quando trova mutamenti».
DOMANDA: In questo punto della tua vita, quanto ti identifichi col fratello maggiore, e quanto della tua vita assomiglia alla sua, come logica per se stesso e come rapporto con gli altri?