Un giorno dell’estate 1828 (Giovannino Bosco aveva appena 13 anni) l’anziano contadino Giuseppe Moglia tornava a casa sudatissimo, con la zappa sulle spalle. Al campanile scoccavano le dodici; l’uomo, con le ossa rotte, si sdraiò a terra sull’erba per riposare. Nemmeno gli venne in mente di dire l’Angelus alla Madonna, come era abitudine, a quei tempi. A un tratto vide in cima a una scala il ragazzetto Giovannino Bosco volgere uno sguardo circolare a tutta la campagna che pareva crogiolarsi al sole, ascoltare per un po’ le cicale che frinivano ininterrottamente; poi piombare in ginocchio e, lentamente, con l’anima piena di stupore recitare a voce alta l’Angelus.
Il vecchio contadino gli lanciò un frizzo: « Guarda là: noi che siamo i padroni dobbiamo logorarci la vita dal mattino alla sera e sfaticare fino a non poterne più: tu invece, tutto beato, ti guardi attorno e poi, tranquillo, ti metti a pregare ».
Giovannino Bosco finì imperterrito la sua preghiera, scese la scala e, rivolto al vecchio: « Senta, – gli disse, – lei è testimonio che io non mi sono risparmiato sul lavoro. Mia madre mi ha sempre insegnato che qualche volta bisogna guardarsi attorno, cercare di vedere Dio nella natura e ringraziarlo mettendosi a pregare. Se si prega, da due grani che noi seminiamo nasceranno quattro spighe; se non si prega, seminando quattro grani si raccoglieranno due sole spighe. Che cosa le costava fermarsi un istante, deporre la zappa e dire una preghiera? ».
L’uomo non dimenticò più quella lezione di un ragazzo di tredici anni.
Occorre educare i ragazzi a tenere mente e cuore aperti alle quotidiane meraviglie della vita. Una donna di 40 anni diceva: «Io non ho mai sofferto d’insonnia, nemmeno nei periodi di grande agitazione, perché quand’ero piccola mia mamma soleva fare un bellissimo gioco con me, al momento di addormentarmi. Mi ricordava qualcosa bella o lieta che avevo visto durante il giorno e mi chiedeva di descriverla: poteva essere un prato di ranuncoli nel sole o i fastosi colori di un tramonto o la grazia goffa di un cucciolo festoso. Così nel corso degli anni ho acquistato tutto un tesoro di simili ricordi, che rievoco a volontà».
Agli occhi dei ragazzi il mondo è tutto fresco e nuovo: basta osservare un fanciullo che carezza un gatto o studia una cavalletta, che odora un fiore o assapora un dolce o ascolta il cinguettio degli uccelli.
Diceva Einstein, il massimo scienziato del secolo scorso: «L’immaginazione conta più della conoscenza». «Il mio Franco è un demonio di ragazzo che non sta mai fermo – raccontava un babbo. – Un giorno capitò da me mentre avevo sul grammofono La Mer di Debussy, e lo invitai a fermarsi e ad ascoltare, spiegandogli brevemente che la musica descriveva i vari aspetti del mare. Con mia sorpresa Franco chiuse gli occhi e mormorò: “Sento le onde; giù nel fondo guizzano grossi pesci… Ora sento una tempesta”. Era penetrato per intuizione nel cuore stesso della musica». Gli adolescenti hanno un’immaginazione dai voli sbrigativi. Purtroppo diventando adulti diminuisce la facoltà di meravigliarsi e insieme tante occasioni di gioia. Tuttavia questa perdita non è inevitabile: la sensibilità alla bellezza che ci circonda può essere mantenuta per tutta la vita, se opportunamente educata nell’adolescenza insieme con il gusto della preghiera. Gli Orientali lo sanno e hanno affinato questa sensibilità sino a farne un’arte di vita. In Giappone si invitano gli amici a contemplare il primo quarto di luna o a celebrare la nascita delle rose in giardino. Una giornalista americana che aveva un appuntamento con un uomo d’affari per un’intervista a Kyoto fece cinque minuti di anticamera. Una segretaria scusò il principale: «Vi prego di capirlo: un fiore è sbocciato or ora sulla sua scrivania e deve contemplarlo».
Un poeta definì molto bene una simile scoperta della natura e dell’onnipotenza di Dio nel creato (che avviene nei momenti felici dell’adolescenza) con queste azzeccate parole: « Nulla cresce su questa terra, nulla vola nell’aria o nuota nel mare che non sia legato da un qualche sottile vincolo magnetico alla sfera solitaria dell’anima umana, soprattutto in un adolescente. La vita che è in noi in queste ore della natura soverchia la morte; il bene soverchia il male ». Era quello che il ragazzo tredicenne Giovannino Bosco aveva intuito in un assolato meriggio estivo quando aveva girato gli occhi sulla natura allagata dal sole e si era messo in ginocchio a recitare l’Angelus.
“Educhiamo come Don Bosco” – Carlo De Ambrogio