Caro don,
La sua risposta al problema cielo/paradiso [leggi l’articolo] dell’anonimo e il fugace suo accenno alla morte mi sollecita a chiederle qualcosa di più su questo spauracchio che fa tremare i polsi a grandi e piccoli. Posso sperare in una chiarificazione?
(via e-mail)
Cara Signora,
La morte è certamente la fine della vita, ma, secondo la visione cristiana, “fine” in questo caso va letta nel senso di traguardo raggiunto, addirittura di meta agognata. Quello che voglio dire è che la morte copre un aspetto dell’uomo e precisamente l’aspetto temporale, l’aspetto biologico. Spero che lei convenga con me che l’uomo è più che un animale, per cui morire al pari di un animale proprio non va né a me né a lei, né a nessuno. O sbaglio? Per l’uomo la morte non è una fine completa, una fine/fine, irrimediabile, ma una fine/traguardo, anzi di più, una fine/pienezza. Il teologo L. Boff, cui mi sono ispirato per questa risposta, porta un esempio che mi sembra calzante. “La fine non è necessariamente una negatività, bensì una positività, come la donna che aspetta un figlio. Quando finalmente ella stringe tra le braccia il suo bambino appena nato, pensa: finalmente ho raggiunto la meta del mio desiderio più profondo: sono madre!”. Questo è il pensare cristiano. Questo vuol dire che io non mi identifico totalmente con il mio corpo, sento di essere di più, cerco, quasi senza accorgermene, di scavalcare il muro della carne. Di là da questo muro sento che c’è ancora qualcosa che non so cosa sia, non so com’è, ma non riesco a togliermi dalla testa che c’è. Gentile signora, il cielo/paradiso manterrà l’identità personale del nostro corpo (sono ancora io e non un altro) ma non la sua identità materiale, la quale peraltro cambia già durante la vita ogni sette anni o giù di lì, come insinuano i biologi.