La Parrocchia, 25 persone in tutto in rappresentanza della comunità parrocchiale, ha partecipato il 27 ottobre alla S. Messa mattutina con Papa Francesco, cosa fortemente richiesta e voluta dal nostro Parroco, D. Giancarlo.
Nell’omelia, che trovate qui sotto, Papa Francesco è stato, come sempre, molto semplice e diretto. Riportiamo il testo integrale, certi che sarà di stimolo per la nostra attività pastorale.
L’esame di coscienza sulle nostre parole, così come lo propone san Paolo, ci aiuterà a rispondere a una domanda cruciale su noi stessi: siamo cristiani della luce, delle tenebre o, peggio, del grigio? È questo l’interrogativo che Papa Francesco ha posto nella messa celebrata lunedì mattina, 27 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta.
Per proporre questo essenziale esame di coscienza Francesco ha preso spunto dal passo della Lettera agli efesini (4, 32-5, 8): «San Paolo dice ai cristiani che dobbiamo comportarci come figli della luce e non come figli delle tenebre, come eravamo un tempo». E «per spiegare questo — sia lui e anche nel Vangelo (Luca 13, 10-17) — fa una catechesi sulla parola: com’è la parola di un figlio della luce e com’è la parola di un figlio delle tenebre».
Dunque, ha spiegato il Papa rilanciando la catechesi paolina, «la parola di un figlio che non è della luce può essere una parola oscena, una parola volgare». Dice infatti l’apostolo: «Di fornicazione e di ogni specie di impurità o di cupidigia, neppure si parli fra voi».
E così, ha fatto notare Francesco, «un figlio della luce non ha questo linguaggio volgare, questo linguaggio sporco».
C’è, però, «una seconda parola, la parola mondana». Tanto che Paolo suggerisce di non parlare neppure «di volgarità, insulsaggini, trivialità». E «la mondanità è volgare e triviale» ha rimarcato. Da parte sua, «un figlio della luce non è mondano e non deve parlare di mondanità, di volgarità».
Ma san Paolo va oltre e dice: «State attenti, che nessuno vi inganni con parole vuote». Un messaggio che non perde di attualità, tanto che il Pontefice ha subito aggiunto che di parole vuote oggi «ne sentiamo tante». E alcune sono anche «belle, ben dette, ma vuote, senza niente dentro». Perciò «neppure questa è la parola del figlio della luce».
E, ancora, ha affermato Francesco «c’è un’altra parola nel Vangelo» ed è precisamente «quella che Gesù dice ai dottori della legge: “Ipocriti”». Sì, è proprio «la parola “ipocrita”». E così, ha suggerito, anche noi «possiamo pensare com’è la nostra parola: è ipocrita? È un po’ di qua e un po’ di là, per stare bene con tutti? È una parola vacua, senza sostanza, piena di vacuità? È una parola volgare, triviale, cioè mondana? È una parola sporca, oscena?». San Paolo ci dice chiaramente, ha spiegato il vescovo di Roma, che «queste quattro parole non sono dei figli della luce, non vengono dallo Spirito Santo, non vengono da Gesù, non sono parole evangeliche». Dunque non è proprio dei figli della luce «questo modo di parlare, parlare sempre di cose sporche o di mondanità o di vacuità o parlare ipocritamente».
Invece «qual è la parola dei santi, cioè la parola del figlio della luce?». È sempre Paolo che dà la risposta: «Fatevi imitatori di Dio: camminate nella carità; camminate nella bontà; camminate nella mitezza». Chi cammina così è, appunto, uno figlio della luce. E ancora: «Siate misericordiosi — dice Paolo — perdonandovi a vicenda, come Dio ha perdonato voi in Cristo. Fatevi, dunque, imitatori di Dio e camminate nella carità». Un’esortazione che, in sostanza, ci invita a camminare «nella misericordia, nel perdono, nella carità». Proprio« questa è la parola di un figlio della luce» ha affermato Francesco sulla scia della lettera agli efesini.
«Oggi la Chiesa ci fa riflettere sul modo di parlare e da questo ci aiuterà a capire se noi siamo figli della luce o figli delle tenebre» ha precisato il Papa. E ha proposito concreti punti di riferimento per orientarsi dicendo: «Ricordatevi: parole oscene, niente! Parole volgari e mondane, niente! Parole vacue, niente! Parole ipocrite, niente!». Queste parole, infatti. «non sono di Dio, non sono del Signore, ma sono del maligno».
È vero, ha convenuto il Pontefice, che si possono capire bene e riconoscere le differenze tra i figli della luce e i figli delle tenebre. «I figli della luce risplendono» come Gesù dice ai suoi discepoli: «Risplendano le vostre opere e diano gloria al Padre». È un fatto evidente che «la luce risplende e illumina gli altri nel cammino». E «ci sono cristiani luminosi, pieni di luce, che cercano di servire il Signore con questa luce». Così come, d’altra parte, «ci sono cristiani tenebrosi, che non vogliono niente dal Signore e portano avanti una vita di peccato, una vita lontana dal Signore». E questi cristiani «usano queste quattro parole» indicato da Paolo.
Non tutto però è sempre così netto e riconoscibile: da una parte i figli delle tenebre e dall’altra i figli della luce. «C’è un terzo gruppo di cristiani — ha spiegato — che è il più difficile complesso di tutti: i cristiani né luminosi né bui». E questi «sono i cristiani del grigio» che «una volta stanno da questa parte, un’altra da quella». Tanto che «la gente di questi dice “ma questa persona sta bene con Dio o col diavolo?”» . E lo dice perché sono cristiani «sempre nel grigio: sono i tiepidi» e «non sono né luminosi né oscuri».
Ma «questi Dio non li ama». Lo si legge nell’Apocalisse quando «il Signore a questi cristiani del grigio, dice “ma no, tu non sei né caldo né freddo! Magari fossi caldo o freddo! Ma perché sei tiepido — grigio — sto per vomitarti dalla mia bocca!”». Dunque, ha detto il Papa, «il Signore è forte con i cristiani del grigio». E a nulla vale giustificarsi per autodifesa «io sono cristiano, ma senza esagerare».
Difatti queste persone grige «fanno tanto male, perché la loro testimonianza cristiana è una testimonianza che, alla fine, semina confusione, semina una testimonianza negativa». E in proposito Paolo è particolarmente chiaro: «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce». Paolo dice «figli della luce» e «non figli delle tenebre, non figli del grigio».
Il passo di san Paolo, ha concluso Francesco, è un buon termometro per riconsiderare bene «il nostro linguaggio». E può tornare utile rispondere a queste domande: «Come parliamo noi? Con quale di queste quattro parole parliamo? Parole oscene, parole mondane, volgari, parole vacue, parole ipocrite?». E la risposta a questi interrogativi, ha aggiunto il Papa, deve suggerirci un’altra domanda: «Sono cristiano della luce? Sono cristiano del buio? Sono cristiano del grigio?». Questo concreto esame di coscienza ci aiuterà a «fare un passo avanti, per incontrare il Signore».
Papa Francesco
Nell’anno del Bicentenario, vogliamo proporre un percorso con al centro l’Eucarestia. Per D. Bosco, la frequenza costante ai Sacramenti della Riconciliazione e della Comunione erano due capisaldi della formazione dei ragazzi. A proposito del sogno delle “due colonne”, Don Bosco diceva: “due soli mezzi ci salveranno, l’Eucarestia e la devozione a Maria Santissima”.
Vogliamo quindi proporre, in quest’anno particolare, un momento di riflessione e di preghiera davanti al Santissimo, in orario serale in modo che sia accessibile a tutti il più facilmente possibile.
Quindi, il 2° giovedì di ogni mese, a partire dall’11 dicembre per poi continuare l’8 gennaio, il 12 febbraio, il 12 marzo, il 9 aprile, il 14 maggio e l’11 giugno, dalle 21 alle 23.30 troverete la Basilica aperta con Gesù nel suo Corpo che vi aspetta per dialogare con Lui.
Avremo la possibilità di adorare, pregare, un cestino che raccoglierà le nostre preghiere che saranno poi affidate a un monastero di suore di clausura per l’offerta a Dio, degli spazi di silenzio, e la possibilità di confessarsi.
Ognuna avrà un tema (dicembre: vieni, Signore, non tardare; gennaio: non temere!; febbraio: adorare con don bosco; marzo: la misericordia; aprile, maggio, giugno: da determinare), i testi li trovate qui.
Il 7 giugno 2014 Papa Francesco ha approvato e confermato quanto contenuto nella Lettera Circolare “L’ESPRESSIONE RITUALE DEL DONO DELLA PACE NELLA MESSA”, preparata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, e ne ha disposto la pubblicazione.
Con la Lettera Circolare, la Congregazione ha inteso ristabilire le linee guida dello scambio della pace, come previsto sin dalle origini dal Messale Romano, senza introdurre cambi strutturali. Tale esigenza è nata da un lato, dalla necessità di mettere in luce il vero significato del rito, compiendolo con senso religioso e sobrietà; dall’altro, di moderare questo gesto liturgico, che può assumere espressioni eccessive, suscitando qualche confusione nell’assemblea proprio prima della Comunione. «E’ bene ricordare come non tolga nulla all’alto valore del gesto la sobrietà necessaria a mantenere un clima adatto alla celebrazione, per esempio facendo in modo di limitare lo scambio della pace a chi sta più vicino». (BENEDETTO XVI, Esort. Apost., Sacramentum Caritatis, n. 49: AAS 99 (2007) 143).
Nella Messa lo scambio della pace si svolge tra il Padre Nostro e la frazione del pane, durante la quale si implora l’Agnello di Dio perché ci doni la sua pace. Si tratta di un gesto che ha la funzione di manifestare pace, comunione e carità.
Ma come si possono tradurre in concreto per gli “addetti ai lavori” e per i fedeli cattolici gli orientamenti dati nella Lettera per il corretto svolgimento del rito della pace nella celebrazione della Messa? A tal proposito si trovano nel documento le seguenti disposizioni pratiche:
- si può omettere e talora deve essere omesso lo scambio di pace quando si prevede che esso non si svolgerà adeguatamente o si ritiene pedagogicamente sensato non realizzarlo in determinate occasioni per evitare che i fedeli si scambino “meccanicamente” il segno della pace;
- le Conferenze dei Vescovi possono considerare se non sia il caso di cambiare il modo di darsi la pace in occasione della pubblicazione della traduzione della terza edizione del Messale Romano o quando vi saranno nuove edizioni del medesimo Messale;
- sarà necessario che nel momento dello scambio della pace si evitino definitivamente alcuni abusi come:
• L’introduzione di un “canto per la pace”, inesistente nel Rito romano.
• Lo spostamento dei fedeli dal loro posto per scambiarsi il segno della pace tra loro.
• L’allontanamento del sacerdote dall’altare per dare la pace a qualche fedele.
• Che in alcune circostanze, come la solennità di Pasqua e di Natale, o durante le celebrazioni rituali, come il Battesimo, la Prima Comunione, la Confermazione, il Matrimonio, le sacre Ordinazioni, le Professioni religiose e le Esequie, lo scambio della pace sia occasione per esprimere congratulazioni, auguri o condoglianze tra i presenti.
- le Conferenze dei Vescovi possono procedere a preparare delle catechesi liturgiche sul significato del rito della pace e sulla sua esatta manifestazione nella Messa.
Nella Lettera Circolare, pertanto, emerge con forza l’insistenza e l’invito a fare passi efficaci sull’espressione rituale del dono della pace nella messa per alimentare, anche attraverso i gesti simbolici, un serio impegno dei cattolici nella costruzione di un mondo più giusto e più pacifico e una comprensione più profonda del significato cristiano della pace. Per tale motivo si esortano i Vescovi e, sotto la loro guida, i sacerdoti ad approfondire il significato spirituale del rito della pace nella celebrazione della Santa Messa, nella propria formazione liturgica e spirituale e nell’opportuna catechesi ai fedeli.
Visto che “l’appetito vien mangiando”, era giunto il momento di riorganizzare la sezione dei corsi che si fanno nella nostra parrocchia, invertendo la modalità di ricerca: se prima si arrivava ai corsi attraverso la pagina della struttura o ente che li proponeva (UNISPED, per esempio), ora ci si arriva dalla pagina che raggruppa tutti i corsi, e successivamente presenta chi li fa.
In questo modo lo sguardo di insieme è molto più ampio, e si è molto più facilitati a trovare quello che si cerca.
La nuova pagina è qui
La preghiera dopo la comunione conclude l’azione eucaristica. Con Cristo nel cuore e il ringraziamento al Padre abbiamo ottenuto tutto e tutto donato. L’assemblea può sciogliersi e questo avviene dopo i riti di conclusione, che comprendono:
Brevi avvisi
La Santa Messa è anche un momento importate d’incontro del sacerdote con i fedeli. E’ naturale che egli approfitti dell’occasione per qualche comunicazione di carattere pastorale. Gli avvisi naturalmente devono essere brevi.
Benedizione e saluto
La benedizione, con cui si conclude la Messa, è preceduta dal saluto augurale: “Il Signore sia con voi”, cui l’assemblea risponde : “E con il tuo spirito”. Viene impartita a braccia allargate, quale segno di affezione con l’intenzione di abbracciare tutti, con un largo segno di croce e con la formula: “Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo” , cui il popolo risponde: “Amen”. In alcuni giorni e in certe circostanze si può arricchire con l’orazione sopra il popolo o con un’altra forma più solenne.
Congedo del popolo
L’ultima frase della Santa Messa è: “La Messa è finita, andate in pace”, che è la traduzione dell’ “Ite missa est“, antico invito proveniente dalla tradizione romana, che nell’ambito civile serviva come formula conclusiva delle assemblee, specialmente parlamentari; fu presa e trasferita nell’assemblea del popolo di Dio e fu impiegata quando si congedavano i catecumeni, poi fu trasferita al termine della celebrazione eucaristica. E’ l’unica volta che nella celebrazione eucaristica la Cena del Signore viene chiamata “Messa”, ma forse si tratta di una traduzione non esatta, perché il termine latino “missa” indica piuttosto “missio”, ossia congedo e allora la traduzione migliore sarebbe: “Andate è (il momento del) congedo”. E’ un invito a rientrare nella vita quotidiana, alle sue opere di bene, lodando e benedicendo Dio, con la pace apportata dall’Eucaristia. All’invito del sacerdote, il popolo risponde: “Rendiamo grazie a Dio”. All’invito e alla risposta, nel periodo pasquale, si aggiunge: “Alleluia”.
Congedo del sacerdote
Il sacerdote si congeda dall’altare baciandolo e facendo la riverenza alla croce e al tabernacolo se questo è collocato nello spazio del presbiterio. L’altare rappresenta Cristo, in quanto luogo del sacrificio consumato e del banchetto offerto, perciò il sacerdote come lo ha baciato all’inizio, fa lo stesso nel congedarsi. Poi il sacerdote, e, se ci sono, gli altri ministri, che hanno anche essi fatto un atto di riverenza all’altare e alla croce, tornano in sacrestia.
L’assemblea si scioglie in maniera molto sobria. La pietà popolare ha aggiunto un canto finale, segno di gioia, omaggio e ringraziamento, che si canta muovendosi.
Bibliografia
Ordinamento generale del Messale romano C.E.I. 2004
Redentionis sacramentum L.E.V. 2004
Catechismo della Chiesa Cattolica L.E.V. 1992
La Verità vi farà liberi L.E.V. 1995
T. Schnitzler Il significato della Messa C. N. 1993
P. Della Valentina La Messa E.D.I. 1991
A. Gasparino La Messa Cena del Signore L.D.C. 1985
R. Pilla La Basilica S.G. Bosco in Roma S.E.I. 1962
Poiché la celebrazione eucaristica è un convito pasquale, conviene che, secondo il comando del Signore, i fedeli ben disposti ricevano il suo Corpo e il suo Sangue come cibo spirituale. A questo mirano i riti preparatori che dispongono immeditamente alla comunione. Essi sono il Padre nostro, i riti della pace, e la frazione del pane.
Preghiera del Signore
Nella preghiera del Signore si chiede il pane quotidiano, nel quale i cristiani scorgono un particolare riferimento al pane eucaristico e si implora la purificazione dai peccati, così che realmente i santi doni vengono dati ai santi. Il sacerdote rivolge l’invito alla preghiera, che tutti i fedeli dicono insieme con lui. La collocazione del Padre nostro in questo punto della Messa, risale al 600 ed è opera di Gregorio Magno; prima probabilmente era collocato al termine della celebrazione.
Dopo il Pater, il Sacerdote recita una preghiera, chiamata “embolismo” (il termine proviene dal greco “en-ballein” = gettare dentro- inserimento), che chiede per tutta la comunità dei fedeli la liberazione dal potere del male e che sviluppa l’ultima domanda del Padre nostro (“liberaci dal male”); essa dice: “Concedi la pace ai nostri giorni……vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento.” E’ un testo nella cui stesura ha contribuito San Gregorio Magno. La risposta dell’assemblea: “Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria dei secoli” è stata inclusa nell’ultima riforma liturgica, ma esisteva nella Liturgia orientale ed è rintracciabile nella Didaché (70-90 dopo Cristo); è l’invocazione per una pace ecumenica.
Segue una preghiera per la pace nella Chiesa, per la quale si chiede “unità e pace”. S’intende la pace interiore della Chiesa in genere, del papa e del collegio episcopale, dei teologi e del magistero della chiesa, dei laici e dei sacerdoti, della comunità unita per la celebrazione eucaristica.
Rito della pace
Si continua col tema della pace, ma il rito cambia. Il sacerdote allarga le braccia e dice: “La pace del Signore sia sempre con voi”. Augura la pace alla comunità e le braccia allargate manifestano questo augurio. La Chiesa implora la pace e l’unità per se stessa e per l’intera famiglia umana.
A questo punto della Messa la riforma liturgica del secolo scorso ha introdotto un segno di pace, perché i fedeli esprimano la comunione ecclesiale e l’amore universale, prima della comunione sacramentale. In Italia consiste normalmente in una stretta di mano tra i fedeli e in un abbraccio tra sacerdoti, ma in altre culture può essere un altro segno. Conviene che ciascuno dia la pace a chi gli sta vicino in modo sobrio.
Frazione del pane
Scambiata la pace, il sacerdote compie un rito importante, ma essendo meno vistoso e accompagnato da un’invocazione fatta a bassa voce, per lo più non è percepito dai fedeli. Egli spezza il pane eucaristico. E’ il gesto della frazione del pane compiuto da Cristo nell’ultima cena, che fin dal tempo apostolico ha dato il nome a tutta l’azione eucaristica. Significa che i molti fedeli, nella comunione dall’unico pane di vita, che è Cristo morto e risorto per la salvezza del mondo, costituiscono un solo corpo (1 Cor 10, 167).
Nello spezzare il pane il sacerdote dice: “Il Corpo e il Sangue di Cristo, siano per noi cibo di vita eterna”, poi mette una parte dell’ostia nel calice, per significare l’unità del Corpo e del Sangue di Cristo nell’opera della salvezza, cioè del Corpo di Cristo Gesù vivente e glorioso.
La frazione del pane è normalmente accompagnata dal canto o dalla recita dell’ “Agnello di Dio”. Le prime due invocazioni terminano con: “abbi pietà di noi” e la terza, con: “dona a noi la pace”.
Comunione
Il sacerdote, dopo la frazione del pane e l’Agnello di Dio si prepara, con una preghiera fatta a voce bassa e a mani giunte, a ricevere con frutto il Corpo e il Sangue del Signore. Il Messale propone due preghiere a scelta: “Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre e con l’opera dello Spirito Santo, morendo hai dato la vita al mondo, per il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue, liberami da ogni colpa e da ogni male, fa che sia sempre fedele alla tua legge e non sia mai separato da te”; ”La comunione con il tuo Corpo e il tuo Sangue, Signore Gesù Cristo, non diventi per me giudizio di condanna, ma per tua misericordia sia difesa e rimedio dell’anima e del corpo”. Anche i fedeli fanno una preparazione immediata, pregando in silenzio.
Quindi il sacerdote genuflette, prende l’ostia e la mostra ai fedeli, invitandoli al banchetto eucaristico: “Beati gli invitati alla cena del Signore. Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo”. E, insieme col popolo, esprime sentimenti di umiltà: “O Signore, non son degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola e io sarò salvato”.
Il Presidente rivolto all’altare dice sottovoce: “Il Corpo di Cristo mi custodisca per la vita eterna”. E con riverenza si comunica al Corpo di Cristo. Poi prende il calice e dice sottovoce: “Il Sangue di Cristo mi custodisca per la vita eterna”. E con riverenza si comunica al Sangue di Cristo. Prende poi la pisside e si porta verso i comunicandi. Nel presentare l’Ostia la tiene alquanto sollevata e dice: “Il Corpo di Cristo”; il comunicando risponde: “Amen” e riceve la comunione nella bocca o sulle mani. In alcune circostanze è consentito ricevere la comunione sotto le due specie. Ciò si può fare bevendo al calice; in questo caso il comunicando, dopo aver ricevuto il Corpo di Cristo, va dal ministro che dice: “Il Sangue di Cristo” e risponde: “Amen”, poi il ministro porge il calice che lo stesso comunicando accosta alle labbra con le sue mani, beve un po’ dal calice, lo restituisce e si allontana; il ministro asterge con il purificatorio il labbro del calice. La comunione sotto le due specie si può fare anche per intinzione; in questo caso il comunicando, tenendo la patena sotto il mento, va dal sacerdote, che prende l’ostia, ne intinge una parte nel calice e mostrandola dice: “Il Corpo e il Sangue di Cristo”, il comunicando risponde: “Amen”, dal sacerdote riceve in bocca il Sacramento e poi si allontana.
Mentre il Sacerdote assume il sacramento inizia il canto di comunione, che deve essere adatto alla circostanza e che si protrae durante la distribuzione del Sacramento ai fedeli. Se non ci sono canti, un lettore o il sacerdote stesso recita l’antifona di comunione.
Terminata la distribuzione della comunione il sacerdote, o un altro ministro, asterge la patena e il calice dicendo: “Il Sacramento ricevuto con la bocca sia accolto con purezza nel nostro spirito, o Signore, e il dono a noi fatto nel tempo sia rimedio per la vita eterna”. Segue un momento di silenzio in cui si medita sul grande dono ricevuto e si ringrazia l’Ospite divino. Questo ringraziamento è certamente insufficiente, esso deve continuare dopo la Messa, nella vita.
Per completare la preghiera del popolo di Dio e per concludere il rito di comunione, il sacerdote recita l’orazione dopo la comunione, nella quale invoca i frutti del mistero celebrato. Il popolo fa sue le intenzione rispondendo: “Amen”.
A questo punto ha inizio il momento centrale e culminante dell’intera celebrazione, la Preghiera Eucaristica, ossia la preghiera di ringraziamento e di santificazione. Il Sacerdote invita il popolo ad innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell’azione di grazia, e lo associa a sé nella solenne orazione, che egli, a nome di tutta la comunità, rivolge a Dio Padre, per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il significato di questa preghiera è che tutta l’assemblea dei fedeli si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio. La P.E. esige che tutti l’ascoltino con riverenza e silenzio.
La denominazione, dal VI secolo fino all’ultima riforma liturgica, era “Canone”, termine che deriva dal greco “kanon”, che significa “regola”, perché non erano consentite variazioni di sorta. Il termine usato dai cristiani d’oriente e talora anche in occidente, è “Anafora”. Deriva dal greco “anafero”, che significa “porto in alto, sollevo”, quindi “elevazione”.
In Oriente ogni chiesa ha la propria anafora. Ciò è spiegabile con il fatto che la liturgia si è formata nelle diverse chiese. Dopo la riforma del secolo scorso, nel Messale sono state inserite quattro preghiere eucaristiche.
La prima, detta anche “Canone romano”, ha una lunga storia, risalente ai primi secoli, nella sua composizione hanno collaborato anche Ambrogio, Damaso, Leone Magno, Gregorio Magno e fu diffuso nel mondo intero dai missionari; la seconda è la più breve ed è anche antichissima, fu composta da Ippolito, vescovo dei primi secoli di una sconosciuta chiesa orientale; la terza e la quarta sono composizioni recenti dei tempi della riforma liturgica posteriore al Concilio Vaticano II, ne è autore il padre Cipriano Vagaggini, benedettino dell’abbazia di S. Andrè presso Burges. In seguito sono state inserite nel Messale altre preghiere eucaristiche: la quinta in quattro versioni diverse (5 a: Dio guida la Chiesa – 5 b: Gesù nostra via – 5 c: Gesù modello della Chiesa – 5 d: La Chiesa in cammino verso l’unità); la Preghiera eucaristica della riconciliazione in due versioni (I: riconciliazione come ritorno al Padre – II: riconciliazione fondamento di umana concordia); la Preghiera eucaristica per la Messa dei fanciulli in tre versioni. Di tanti canoni i più utilizzati normalmente sono il 2° nei giorni feriali e il 3° in quelli festivi.
Gli elementi principali delle P.E si possono distinguere come segue:
Prefazio
La preghiera eucaristica inizia col prefazio, termine proveniente dal latino, che significa “dire prima”. E’ parte integrante della Preghiera eucaristica. Si apre con un augurio: “Il Signore sia con voi”, cui l’assemblea, risponde: “E con il tuo spirito”, segue un ringraziamento: “Rendiamo grazie al Signore nostro Dio” e l’assemblea risponde : “E’ cosa buona e giusta”, poi il sacerdote conferma il sentimento dei fedeli, quasi commentando: “E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore…”. Quindi il sacerdote, a nome di tutto il popolo, glorifica Dio Padre e gli rende grazie per tutta l’opera della salvezza o per qualche suo aspetto particolare, a seconda della diversità del giorno, della festa o del tempo.
Nella storia i prefazi furono molto numerosi, fino a raggiungere in certi periodi il numero di due-trecento, poi nel Messale di Pio V si ridussero a 11; nel nuovo Messale ne troviamo circa novanta.
Santo
Il prefazio si conclude con un’acclamazione, sotto forma di breve inno, che risulta di due parti: il “Santo” e il “Benedetto”. Il “Santo” riproduce quanto Isaia udì cantare dai Serafini davanti al trono dell’Altissimo: “Santo, Santo, Santo il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria“ (Is 6,3). Il “Benedetto” richiama il grido della folla che accolse Gesù nell’ingresso trionfale a Gerusalemme. “Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli” (Mt 21,9)”.
Epiclesi consacratoria
Dopo il Santo, e prima del racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, la Chiesa si rivolge al Padre come fonte della santità e implora con speciali invocazioni la potenza dello Spirito Santo, perché i doni offerti dagli uomini siano consacrati, cioè diventino il Corpo e il Sangue di Cristo e perché la vittima immacolata, che si riceverà nella Comunione, giovi per la salvezza di coloro che vi partecipano. La terza preghiera eucaristica dice chiaramente: “manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo”. Questa parte della Preghiera eucaristica è detta “epiclesi” di consacrazione, per distinguerla dall’epiclesi di comunione. Epiclesi è una parola greca che significa invocazione, preghiera.
Mentre recita l’epiclesi il sacerdote compie due gesti: distende le mani sopra il pane e su di esso traccia un segno di croce. L’imposizione delle mani, secondo alcuni richiama il gesto ebraico di imporre le mani sopra l’animale destinato al sacrificio e indica che Gesù è colui che si offre al Padre per la salvezza del mondo, secondo altri si rifà all’imposizione delle mani che avviene anche nell’amministrazione di altri sacramenti: Battesimo, Cresima, Ordine, Penitenza. Il segno di croce fu aggiunto dal Concilio di Trento e indica che l’Eucaristia è vero sacrificio di Cristo, sebbene senza spargimento di sangue, a differenza di quanto è avvenuto sul Calvario; questo segno è qui molto opportuno.
Racconto dell’istituzione-Consacrazione
Il momento centrale della Messa è il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia da parte di Gesù, nell’ultima cena. Il racconto inizia così: “ la vigilia della sua passione” (1° Canone); “Egli, offrendosi liberamente alla sua passione” (2° canone); “nella notte in cui fu tradito (3° canone); “Egli, venuta l’ora di essere glorificato da te” (4° canone)…
Mediante le parole e i gesti di Gesù, si compie il sacrificio che Cristo stesso istituì nell’ultima cena, quando offrì il suo Corpo e il suo Sangue sotto le specie del pane e del vino, li diede a mangiare e a bere agli Apostoli e lasciò loro il mandato di perpetuare questo mistero. Le parole della consacrazione sono riportate nella stessa forma in tutte le preghiere eucaristiche: “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi.”. “Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti, in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.”
Dopo le parole sul pane, il sacerdote presenta l’ostia consacrata al popolo, la depone sulla patena, genuflette e, dopo le parole sul vino, presenta al popolo il calice, lo depone sul corporale e genuflette in adorazione. Queste elevazioni sono state introdotte quando il sacerdote recitava a voce bassa le parole, con le spalle volte ai fedeli. Il segno fu mantenuto opportunamente nella riforma fatta dopo il Vaticano II. La presentazione avviene perché si guardi con fede e ci si unisca all’adorazione del sacerdote che la esprime anche con l’inchino e la genuflessione.
Nell’ultima riforma fu introdotta la proclamazione che fa a questo punto il sacerdote dicendo “Mistero della fede” e l’acclamazione del popolo fatta con la seguente o altra formula simile: “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione nell’attesa della tua venuta”. Con questa acclamazione l’assemblea professa la sua fede nel Signore presente veramente, realmente, personalmente, riconosce la presenza di colui che morì, risorse e ritornerà; professa un credo in forma ridotta.
Anamnesi
La preghiera eucaristica continua. Adempiendo il comando ricevuto dal Signore per mezzo degli Apostoli, la Chiesa celebra il memoriale di Cristo, commemorando specialmente la sua beata passione, la gloriosa risurrezione e l’ascensione al cielo. Si tratta di un ricordo, termine che il greco indica con “anamnesi”.
Nel corso di questo memoriale, la Chiesa offre al Padre in rendimento di grazie, la vittima immolata.
Epiclesi
Poi viene invocato lo Spirito Santo per la comunione; questa preghiera è detta anche “epiclesi” (=preghiera) di comunione; il terzo canone la esprime così: “dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito”.
Intercessioni
Seguono le intercessioni; con esse si esprime che l’Eucaristia viene celebrata con tutta la chiesa, sia celeste che terrena e che l’offerta è fatta per essa e per tutti i suoi membri, vivi e defunti, i quali sono stati chiamati a partecipare alla redenzione e alla salvezza ottenuta per mezzo del Corpo e del Sangue di Cristo.
Le intercessioni non hanno nelle varie preghiere eucaristiche il medesimo ordine e l’identica estensione. Nella terza, ad esempio, si prega per il mondo intero, per la Chiesa, per il Papa, per il vescovo della diocesi, il collegio episcopale, il clero, il popolo e i fratelli defunti. Il canone romano ha anche un’intercessione per i viventi, che possono essere nominati. Nella II e nella III preghiera eucaristica si trova una preghiera per i partecipanti alla Messa (“di noi tutti abbi misericordia”: 2° – “concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre”: 3°).
Nel giorno delle esequie si può anche dire il nome del defunto.
Dossologia finale
La Preghiera eucaristica si conclude con la seguente dossologia (termine greco che significa: “glorificazione” – “celebrazione”): “Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”, detta o cantata dal sacerdote, cui il popolo risponde: “Amen”. Il sacerdote mentre canta o recita la dossologia, eleva la patena con l’Ostia e il Calice e li presenta all’adorazione dell’Assemblea.
Nell’ultima Cena, Gesù Cristo istituì il sacrificio e convito pasquale per mezzo del quale è reso continuamente presente nella Chiesa il sacrificio della croce, allorché il sacerdote, che rappresenta Cristo, compie ciò che il Signore fece e affidò ai discepoli, perché lo facessero in memoria di lui. Cristo infatti prese il pane, rese grazie, spezzò il pane, … prese il calice e li diede ai suoi discepoli dicendo: “Prendete, mangiate, …bevete; questo è il mio Corpo; …questo è il calice del mio Sangue. Fate questo in memoria di me”. Perciò la Chiesa ha disposto tutta la celebrazione della liturgia eucaristica in vari momenti, che corrispondono a queste parole e gesti di Gesù. Infatti:
nella preparazione dei doni vengono portati all’altare pane e vino con acqua, cioè gli stessi elementi che Cristo prese tra le sue mani;
nella Preghiera Eucaristica si rende grazie a Dio per tutta l’opera della salvezza, e le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Cristo;
mediante la frazione del pane e per mezzo della Comunione, i fedeli si cibano del Corpo del Signore nell’unico pane e ricevono il suo sangue nell’unico calice, allo stesso modo con il quale gli Apostoli li hanno ricevuti dalle mani di Cristo stesso.
La preghiera dei fedeli conclude la Liturgia della parola; ad essa segue la Liturgia eucaristica. Lo stacco fra le due parti è oggi avvertito solo per la preparazione delle offerte e il movimento del Presbitero. Nei tempi antichi lo stacco era netto, perché a questo punto venivano congedati i Catecumeni che si preparavano al Battesimo, i pubblici peccatori durante il periodo della penitenza e coloro che erano esclusi dalla comunione dei fedeli per ostinata ribellione o credenze eretiche. In quei tempi e per la gente di allora l’allontanamento era segno chiaro di una realtà che è sempre attuale: la Messa è un fatto religioso, in cui è presente il Figlio di Dio, che esige comunione con Dio e con i fratelli battezzati. Oggi non è escluso nessuno, ma il peccatore è invitato a riconciliarsi con Dio e il non battezzato a riflettere seriamente sul mistero che si celebra.
L’altare prima della liturgia eucaristica dovrebbe essere spoglio di tutti gli oggetti richiesti per l’Eucaristia e il Sacerdote dovrebbe trovarsi alla sede.
La parte principale della liturgia della parola è costituita dalle letture bibliche con i canti che le accompagnano. Alle letture seguono l’omelia, la professione di fede e la preghiera universale o dei fedeli. Nelle letture , che vengono spiegate nell’omelia, Dio parla al popolo; il popolo fa propria la parola divina con il silenzio e i canti, vi aderisce con la professione di fede e prega per le necessità della Chiesa e la salvezza del mondo.
Le letture
Le letture devono essere tratte sempre dalla Sacra Scrittura. In esse viene preparata ai fedeli la mensa della Parola di Dio e vengono loro aperti i tesori della Bibbia. E’ messa in luce l’unità dei due Testamenti e della storia della salvezza. Le letture proposte per la liturgia della parola sono tre più un salmo nei giorni festivi, e due più un salmo in quelli feriali.
Nei giorni festivi le letture variano secondo un ciclo triennale, durante il quale i Vangeli dell’anno A sono secondo Matteo, quelli dell’anno B, secondo Marco, e i Vangeli dell’anno C, secondo Luca; la prima lettura è ricavata normalmente dall’Antico Testamento, eccetto che nel Tempo Pasquale, quando è tratta dagli Atti degli Apostoli, e la seconda proviene dagli Scritti del Nuovo Testamento. Il Vangelo di Giovanni viene letto come gli altri, non però in un anno specifico, ma nelle domeniche di Quaresima, di Pasqua e in particolari solennità e circostanze.
Nelle 34 settimane del periodo ordinario dei giorni feriali le letture sono suddivise in due cicli, secondo gli anni pari e dispari. I Vangeli sono tratti per nove settimane da Marco, per dodici da Matteo e per tredici da Luca; le prime letture sono dell’Antico o del Nuovo Testamento. Negli altri tempi la scelta delle letture è fatta secondo le caratteristiche del periodo liturgico.
Le letture vengono proclamate dall’ambone. Le prime due da un lettore, il Vangelo da un diacono o da un sacerdote. Al termine della prima e della seconda lettura chi legge pronunzia l’acclamazione “Parola di Dio”, intendendo dire che è stata proclamata una parola ispirata da Dio, infatti, come dice Paolo: “tutta la Scrittura è… ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia” (2 Tm 3, 16). Non è esatto sostituire l’acclamazione con: “E’ parola di Dio”, che non traduce esattamente il latino: “Verbum Domini”. L’assemblea dà onore alla Parola di Dio, accolta con fede e con animo grato rispondendo: “Rendiamo grazie a Dio”. Al termine del vangelo l’acclamazione è: “Parola del Signore” e intende asserire che si tratta di parola di Gesù e la risposta è: “Lode a te, o Cristo “. Chi proclama le letture bibliche deve farlo con dignità e proprietà, in maniera che tutti possano udire; la dizione va fatta in modo che la voce renda viva la parola e ne favorisca la comprensione, prestando attenzione a non diventare teatrale.
Prima e seconda lettura
Nei giorni festivi la prima lettura è in sintonia col tema principale del brano evangelico. La seconda è tratta da un libro della Bibbia, i cui brani vengono proposti in lettura semicontinua per alcune domeniche di seguito. In tempi particolari dell’anno e nelle solennità anche la seconda lettura è in sintonia col tema principale del Vangelo.
Nei giorni feriali le due letture concordano nel tema durante i periodi forti, mentre nelle 34 settimane del tempo ordinario vengono proposti in lettura semicontinua i Vangeli di Marco. Matteo e Luca e brani di vari libri dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Salmo responsoriale
Tra la prima e la seconda lettura si colloca il Salmo responsoriale. Si chiama “salmo”, perché è ricavato da uno dei 150 Salmi della Bibbia, responsoriale” (dal latino “responsorium” = risposta) perché rappresenta la risposta della comunità alla Parola di Dio ascoltata nella prima lettura. E’ una preghiera, anch’essa parola di Dio, che vuol essere il commento-risposta all’argomento trattato nella prima lettura. Ha una lunga tradizione; anche gli ebrei usavano alternare nelle loro sinagoghe la lettura col canto dei salmi. Normalmente il Salmo responsoriale viene recitato alternativamente dal lettore e dal popolo, ma sarebbe meglio cantarlo, almeno per quanto riguarda la risposta del popolo.
Vangelo
La proclamazione del Vangelo è preceduta da un’acclamazione, con la quale l’assemblea accoglie e saluta il Signore che sta per parlare nel Vangelo e manifesta la propria fede. E’ costituita normalmente da un versetto che si trova nel lezionario e dall’alleluia. L’alleluia (dall’ebraico “allelu-jah”= lodate Jhave= lodate il Signore), che dovrebbe sempre essere cantato, è previsto per tutti i periodi dell’anno, eccetto che nel tempo di Quaresima, quando è sostituito da: “Lode a te, o Cristo, re d’eterna gloria“.
In alcune circostanze, prima dell’alleluia, viene letta o cantata una Sequenza, che è obbligatoria solo per la Pasqua e la Pentecoste. L’assemblea resta in piedi durante il canto o la lettura della sequenza, dell’alleluia e del Vangelo.
Prima che venga proclamato il Vangelo, il Sacerdote (o il Diacono, quando c’è) richiama l’attenzione dei fedeli con l’augurio: “Il Signore sia con voi “ e l’assemblea ricambia: “E con il tuo spirito“, perché chi legge il Vangelo deve essere consapevole del suo alto incarico. Salutato il popolo viene annunziato il libro da cui è tratto il brano che viene letto; “Dal Vangelo di…“, cui il popolo risponde: “Gloria a te, o Signore“. Lettore e assemblea affermano così che le parole e i gesti di cui tratta il Vangelo sono di Gesù, che è presente, perché accompagna con la sua assistenza chi con devozione legge e ascolta. Mentre annunzia la lettura il ministro segna con una crocetta il libro e poi, imitato dai fedeli, traccia tre piccole croci: sulla fronte, perché la parola di Dio occupi la mente, sulla bocca, perché essa venga annunziata agli altri, sul cuore, perché il cuore ne resti infiammato. Segue la lettura, al termine della quale il sacerdote bacia la pagina letta. Il bacio è rivolto a Gesù, in segno di riconoscente amore. Al termine, l’acclamazione: “Parola del Signore” e la riposta dell’assemblea: “Lode a te o Cristo“. Talora dopo la lettura del Vangelo viene ripetuto l’alleluia, ma questo rito non è previsto dalle norme liturgiche. Quando il Vangelo viene proclamato dal diacono, terminata la lettura, l’evangeliario viene portato dallo stesso diacono al Presidente, che lo bacia.
Nelle Messe solenni, specialmente quando è presente il Vescovo, la lettura del Vangelo è preceduta da altri riti. Dopo la prima e la seconda lettura, il Presidente pone l’incenso nel turibolo, e lui stesso, o il sacerdote lettore recita la preghiera: “Purifica il mio cuore e le mie labbra, o Dio onnipotente, perché possa annunziare degnamente il tuo Vangelo“. Se c’è un Diacono, dopo la posa dell’incenso nel turibolo, questi dice al Presidente: “Benedicimi o Padre” e il Sacerdote risponde: ” Il Signore sia nel tuo cuore e nelle mie labbra, perché tu possa annunziare degnamente il suo Vangelo. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.” Il lettore, accompagnato dai due ministranti che portano i ceri, si reca in piccola processione all’ambone in segno di onore a Gesù, e incensa il Libro da cui leggerà il brano evangelico.
Omelia
L’omelia (dal greco: “omilia” = colloquio familiare) fa parte delle liturgia; la richiedono naturalmente le letture bibliche che mediante l’omelia diventano ancora di più Parola viva. Essa consiste non in una catechesi, ma nella spiegazione o di qualche aspetto delle letture della Sacra Scrittura o di qualche altro testo dell’Ordinario o del Proprio della Messa del giorno, tenuto conto sia del mistero che viene celebrato, sia delle particolari necessità di chi ascolta . Compito dell’omelia è attualizzare la parola di Dio, esprimere ciò che Dio dice nel tempo presente; in essa deve risaltare la parola della Chiesa circa la parola di Dio.
Chi la pronunzia compie la funzione del profeta che, in nome di Dio, annunzia la sua parola, la spiega e l’applica alla situazione dell’assemblea. Di solito è tenuta personalmente dal sacerdote celebrante; talora da un sacerdote concelebrante e , secondo l’opportunità, anche da un diacono, non però da un laico. Nei giorni festivi non può essere omessa, nei giorni feriali di Avvento, Quaresima e nelle feste è vivamente raccomandata, negli altri giorni è consigliata.
E’ opportuno, dopo l’omelia, osservare un breve minuto di silenzio.
Professione di fede
A conclusione della Parola di Dio nelle domeniche e nelle solennità e in particolari celebrazioni solenni, segue il Credo, che è una professione di fede, che va proclamata o cantata in piedi dal Sacerdote insieme con il popolo. Del Credo il Messale italiano presenta due formulazioni. Quello comunemente recitato fu introdotta nella Messa della Chiesa di Roma nell’undicesimo secolo, è chiamato simbolo niceno – costantinopolitano, perché proposto prima dai Vescovi riuniti nel Concilio di Nicea (a. 325) e poi accolto, con un’aggiunta, da quelli riuniti nel Concilio di Costantinopoli (a. 381). Nelle Chiesa d’Occidente contiene in più il termine “fìlioque“, proposto dai vescovi di Spagna. L’altro è stato introdotto nel Messale nella seconda metà del ventesimo secolo ed è denominato “simbolo Apostolico“, è fatto risalire al tempo degli Apostoli e veniva insegnato agli adulti che si preparavano al Battesimo.
Il termine “simbolo” proviene dal greco e significa segno di riconoscimento. Il Credo è la “tessera” di riconoscimento del cristiano. Presenta l’insegnamento della fede sull’Unità e Trinità delle Divine Persone e in un certo senso riassume i fatti salienti della storia della salvezza: creazione, caduta dell’uomo, peccato originale, annunzio del Salvatore, redenzione apportata dal Figlio di Dio con l’incarnazione, passione e morte, risurrezione e ritorno per risuscitare e giudicare l’umanità, Chiesa, sacramenti, vita eterna.
La professione di fede ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla parola di Dio, proclamata nella lettura della Sacra Scrittura e spiegata nell’omelia e che, recitando la regola di fede, torni a meditare e professi i grandi misteri della fede, prima della loro celebrazione nell’Eucaristia.
Preghiera universale
La preghiera che fa seguito al Credo è una felice innovazione della riforma liturgica avvenuta dopo il Concilio Vaticano II, anche se nei primi secoli era frequente e un esempio di essa si trova nella Liturgia del Venerdì Santo. E’ detta preghiera universale o dei fedeli, perché è elevata a Dio dal popolo che prega per la salvezza di tutti.
Ordinariamente le intenzioni, che devono essere sobrie, formulale con sapiente libertà e con poche parole, devono avere la seguente successione: per le necessità della Chiesa, per i governanti e la salvezza del mondo, per quelli che si trovano in difficoltà, per la comunità locale. Le introduce e le conclude il sacerdote. Le intenzioni vengono lette dall’ambone o da altro luogo conveniente dal diacono o dal cantore o dal lettore o da un fedele laico. Il popolo, stando in piedi, esprime la sua supplica con un’invocazione comune dopo la formulazione di ogni singola intenzione, oppure pregando in silenzio.
La Liturgia della Parola è preceduta dai riti d’introduzione: l’introito, il saluto, l’atto penitenziale, il Gloria e l’orazione o colletta.
Introito
Quando il popolo è radunato, mentre il sacerdote fa il suo ingresso con i ministri, si inizia il canto d’ingresso. La funzione propria di questo canto è di dare inizio alla celebrazione, favorire l’unione dei fedeli riuniti, introdurre il loro spirito nel mistero del tempo liturgico o della festività e accompagnare la processione del sacerdote e dei ministri. Il popolo canta in piedi e sottolinea così l’unità dell’assemblea.
Il canto d’ingresso una volta era un lungo salmo, interrotto da versi o da invocazioni; di questo salmo è restata nel messale solo l’antifona, parola greca che significa “suono davanti” o “voce premessa” che è intonata alla festa o alla domenica ed è detta “introito”, perché introduce. Il canto che ora sostituisce il salmo, deve avere le stesse caratteristiche e la stessa intonazione alla liturgia. Quando non ci sono canti, il sacerdote si limita alla lettura dell’antifona.
In particolari festività viene fatta la processione d’ingresso. Nella forma più solenne va davanti il turiferario e la nube dell’incenso precede la processione, come la colonna di nube il popolo d’Israele (Es. 13, 21 ), segue il crocifero che collocherà la croce ai lati dell’altare e i coriferari con le candele accese, poi il Diacono che porta sollevato il libro dei Vangeli, quindi i concelebranti e per ultimo il sacerdote che presiede. La processione percorre almeno una parte della Chiesa e per il corridoio centrale si avvia verso l’altare. La processione d’ingresso trae origine da quello che avveniva in antico a Roma con la partecipazione di tutto il clero e con a capo il Sommo Pontefice. Ricorda il cammino della Chiesa pellegrinante verso la casa di Dio nella gloria e dice che viene Cristo Signore: la croce è il suo segno, il libro dei vangeli contiene la sua parola, il sacerdote è la sua mano, i ceri ricordano che Egli è luce, l’incenso che a lui si deve onore.
Saluto all’altare
Giunti in presbiterio, il sacerdote ed i ministri salutano l’altare con un profondo inchino.
Quando nella zona del Presbiterio si trova il Santissimo, si fa la genuflessione. Dopo l’inchino, in segno di venerazione, il sacerdote bacia l’altare. E’ chiaro nell’inchino e nel bacio il significato di profondo rispetto e amore a Cristo. L’altare infatti rimanda a Cristo, che è l’unico altare del cristianesimo.
Nelle Messe solenni a questo punto vengono incensati l’altare e la croce. La nuvola d’incenso avvolge in certo senso altare e fedeli bisognosi di benedizione, come la nube della presenza di Dio avvolgeva la Tenda del Convegno. ( Es 40, 35)
Segno di croce e saluto al popolo
Subito dopo le riverenze, il Sacerdote e i ministri, quando ci sono, dovrebbero recarsi alle sedi. Terminato il canto d’ingresso il sacerdote, stando in piedi alla sede, con tutta l’assemblea, si segna col segno della croce. La Messa inizia cosi con questo tipico segno del cristiano, nel nome della Trinità, perché la Messa è avvento di Dio nella nostra vita.
Poi il sacerdote con il saluto annunzia all’assemblea radunata la presenza del Signore. Il saluto sacerdotale, che può essere espresso in varie forme, e la risposta del popolo manifestano il mistero della Chiesa radunata. Durante il saluto, il sacerdote allarga le braccia e le racchiude e così augura e annunzia il legame con il Signore. Il gesto potrebbe forse anche significare un abbraccio che avvolge l’assemblea in un saluto di pace.
Salutato il popolo, se non c’è stato canto iniziale, il sacerdote legge l’antifona di introduzione, poi lo stesso sacerdote, o anche un ministro, può fare una brevissima introduzione sulla Messa del giorno.
Atto penitenziale
II sacerdote invita all’atto penitenziale che, dopo una breve pausa di silenzio, viene compiuto da tutta la comunità mediante una formula di confessione e si conclude con l’assoluzione del sacerdote, che non ha lo stesso valore del sacramento della Penitenza. E’ un atto che trae origine dalla solenne “prostratio” della Messa papale del primo Medioevo ed è rimasto per tempo avvolto dai canti dell’Introito. Dopo il Concilio Vaticano II ha preso la forma attuale.
La liturgia penitenziale ha inizio con l’invito a “riconoscere i peccati” e quindi con una breve pausa di silenzio, di cui non si può fare a meno ma che di solito è troppo breve per riuscire efficace, e anche per questo alla messa è necessario andare preparati. La formula più usata di preghiera penitenziale è il Confiteor (nell’alto Medioevo si trova già un Confìteor simile all’attuale) con cui ci riconosciamo colpevoli davanti a Dio e agli uomini e diciamo di aver “molto peccato”, anzi “troppo” (nimis), per nostra grandissima colpa, in “pensieri, parole, opere e omissioni” e ci rivolgiamo a Maria, nostra “avvocata” , agli Angeli, ai Santi e anche ai nostri fratelli e sorelle, come noi peccatori, perché intercedano presso Cristo nostro Signore. Il gesto di battersi il petto accompagna il Confiteor: è un gesto che indica riconoscimento di colpa.
Nel messale si trovano altre forme penitenziali che sostituiscono il Confiteor. L’atto penitenziale prosegue con una triplice invocazione detta dal celebrante e ripetuta dal popolo: “Signore pietà! Cristo pietà! Signore pietà!” . Il testo originale in greco della triplice invocazione (Kyrie eleison! Cristo eleison! Kyrie eleison! ) è entrato nella Messa romana già dai tempi di S. Gregorio Magno ed è l’unica espressione in lingua greca conservata nella celebrazione eucaristica per molti secoli; attualmente la si ripete solo se cantata. Il sacerdote conclude con una supplica di perdono.
In alcune circostanze, per esempio nella Quaresima, l’atto penitenziale è sostituito dall’aspersione. Essa è ricordo del Battesimo, atto penitenziale, lavaggio e purificazione. Il sacerdote benedice l’acqua, poi, mentre il coro canta, si reca in mezzo ai fedeli e asperge l’assemblea con l’acqua benedetta, tornato al suo posto, recita la relativa preghiera di chiusura.
Una delle formule con cui ha inizio l’atto penitenziale dice: “per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati”. Non si può partecipare alla Santa Messa se si è in stato di peccato. Se si fa l’atto penitenziale con pentimento sincero, se si chiede perdono a Dio, per l’offesa arrecata a lui col peccato, se c’è la decisione di non peccare più, il Signore perdona le colpe e si possono “celebrare degnamente i santi misteri”. Tuttavia se sono stati commessi peccati mortali per ricevere la Santa Comunione è necessario prima fare la Confessione.
Gloria
All’atto penitenziale, nei giorni festivi, segue il Gloria, che viene intonato dal Presidente e cantato o recitato dal popolo. Talora è chiamato “inno angelico”, perché inizia con le parole degli Angeli alla nascita di Gesù. E’ un inno antichissimo e venerabile, con il quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica, supplica Dio Padre e l’Agnello, esprime gioia, lode riconoscente, benedizione, adorazione, celebrazione della gloria del Signore.
Colletta
Dopo il Gloria, o dopo l’atto penitenziale se non c’è il Gloria, il sacerdote invita il popolo a pregare e, tutti insieme con lui, stanno per qualche momento in silenzio, per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera, quindi il presidente conclude con l’orazione detta “colletta”, termine che proviene dal latino “colligere ” (raccogliere), e indica il fatto che il sacerdote raccoglie le preghiere dei fedeli e conclude con una preghiera che è rivolta al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo. Il popolo, unendosi alla preghiera, fa propria l’orazione con l’acclamazione: “Amen”. Nelle Messe si dice sempre una sola colletta, che nei giorni festivi può essere scelta tra due che sono a disposizione, una prima solenne, concisa, poetica e antica, una seconda composta dopo la riforma liturgica del secolo scorso, che riassume mirabilmente i principali temi delle letture bibliche.